Insetti utili – impollinatori

E’ giunto il periodo di dare un concreto supporto agli insetti impollinatori (api, api solitarie, bombi, ecc…) per il lavoro che andranno a svolgere nei nostri orti / giardini. Stimolare il loro arrivo è possibile mettendo a disposizione fiori particolarmente graditi, tra cui:

–       Coreopsis

–       Pisello odoroso

–       Facelia

–       Calendula

Fiori reperibili facilmente, sia in busta sementi che in pianta sviluppata da mettere a dimora, presso i garden della zona.

Garantirne poi una  costante presenza è possibile attraverso la preparazione di nidi artificiali (stazioni di impollinazione) che con molta facilità si possono  costruire recuperando materiali di scarto (ceppi di legno, canne di bambù, mattoni forati). Per la costruzione è sufficiente disporre di un trapano elettrico ed una punta per legno o ferro del diametro di 10/12 cm e fare dei fori (vedi le fotografie). Il posizionamento deve essere  a riparo dalle intemperie ed in zona tranquilla onde evitare che siano disturbati.

E’ fondamentale che non vi sia l’utilizzo di fitofarmaci o chimica di sintesi nella coltivazione per evitarne lo sterminio.

Il ritorno e la permanenza degli insetti utili deve essere visto in un’ottica diversa del verde urbano (parchi, orti, giardini) dove all’interno la diversità biologica deve essere viva e si interscambia. Creare ambienti idonei a questi insetti significa disporre di corridoi ecologici che si intrecciano in tutto il verde urbanizzato valorizzando e non eliminando quello che realmente è utile alla nostra nutrizione ed alla nostra permanenza sul pianeta.

Un ottimo supporto didattico e pratico è dato da EUGEA srl (www.eugea.it) azienda commerciale e casa editrice fondata da un gruppo di entomologi dell’Università di Bologna, coordinati dal Prof.Gianumberto Accinelli, che da anni si occupano di insetti utili. Un invito pertanto a visitarne il sito.

Per consultarci in merito: ortidellamartesana@gmail.com

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MelzOrti (orti urbani a Melzo, una riflessione)

La prima esperienza di Orti Urbani sta per avere inizio a Melzo.
I soggetti che andranno ad operare nell’area messa a disposizione ed attrezzata allo scopo dall’Amministrazione Comunale sono molto diversi tra loro;  si tratta di famiglie, pensionati, associazioni che lavorano con i giovani, con persone diversamente abili, e con adulti con problemi di salute mentale. Una campionatura sociale dunque, un potenziale laboratorio antropico che dovrebbe porsi  tre precisi obbiettivi.

  • Primo: trovare (o ritrovare perfezionandole) e sperimentare – in un momento storico caratterizzato per contro dall’individualismo più sfrenato- forme di mutuo aiuto che vanno oltre alla pura e semplice convivenza, e ciò, attraverso lo scambio dei saperi e mediante forme di collaborazione finalizzate a mantenere un luogo sentito e vissuto come bene pubblico.
  • Secondo: esperire un rapporto con  la terra, il lavoro manuale, costante e paziente,  cogliendo l’occasione di poter esprimere una passione che, se  per gli anziani è sempre stata viva e gelosamente conservata di generazione in generazione,  per i giovani è un’esperienza tutta da scoprire, coltivare e consolidare.
  • Terzo: sentirsi e diventare protagonisti nella progettazione un nuovo paesaggio urbano commestibile utilizzando sia spazi comuni attrezzati o da attrezzare che  anche aree degradate e marginali della città, essere parte attiva nella costruzione  di un sistema concreto di agricoltura urbana finalizzato  nel tempo  a fornire un reale  contributo al nutrimento della comunità.

Gli Orti Urbani allora offrono un’opportunità che va ben oltre il vantaggio concreto del singolo soggetto nel momento attuale di forte crisi economica o la possibilità di terapia benefica per gli utenti delle associazioni coinvolte. Essi diventano catalizzatori di socialità , un’occasione per riflettere sul modo migliore di avviare e costruire un interscambio culturale e generazionale in cui i saperi della comunità vengano messi in circolo al fine di creare un unico bene collettivo attraverso il mutuo aiuto e superando le diversità. Si può partire dalle cose semplici: molti anziani sanno sicuramente già coltivare in autonomia il proprio terreno, mentre i giovani sono poco esperti e hanno bisogno di consigli. Questo potrebbe essere un primo esempio di interscambio dei saperi, passando attraverso momenti conviviali che coinvolgano tutta la comunità orticola. L’area degli Orti Urbani, anche se divisa e pianificata logisticamente, deve poter essere vissuta  come luogo senza tempo dove sia costantemente vivo lo scambio culturale tra generazioni e vissuti diversi. La memoria storica negli anziani è sicuramente un altro prezioso patrimonio ed è proprio attraverso i momenti di lavoro comune che può riaffiorare il ricordo del passato, un ricordo che diventa racconto e si trasforma in esperienza da tramandare; storie di vita che aiutano a conoscere e a capire i grandi sacrifici e le sofferenze vissute dalle generazioni precedenti in tempi e luoghi non poi così lontani dai nostri

Lavorare nell’orto, a diretto contatto con la terra, l’aria, il sole e le intemperie, può aiutarci a recuperare capacità e valori purtroppo abbandonati e dimenticati. Fortunatamente è sempre e solo la natura a stabilire e scandire i tempi dell’orto e l’uomo si deve pazientemente adeguare a questa sovranità assoluta che richiede un rapporto di profondo rispetto nei confronti degli altri esseri viventi presenti nella stessa area. E’ un lavoro manuale faticoso sì, ma mai meccanico e standardizzato e anche ricco di soddisfazioni quando si raccolgono i risultati del proprio operato! E’ un lavoro che richiede, oltre alla conoscenza, una visione a breve e medio termine del da farsi ed una capacità di programmazione per una gestione razionale delle risorse. Prendersi cura di un orto ci permette di ritrovare i sapori sani e semplici della nostra tradizione alimentare e di recuperare le emozioni legate a quei sapori.

Si presenta inoltre l’occasione di ridisegnare la città attraverso forme inedite di paesaggio (forme inedite per la civiltà industriale e post-industriale; gli orti e giardini sono in realtà sempre stati parte integrante dei paesaggi urbani) in un’ottica che non sia solo di crescente cementificazione (con rare concessioni di isole di verde fine a se stesso) o di spazio degradato a discarica abusiva. E’ un’opportunità di riorganizzare il nostro tempo liberato dal lavoro, sempre meno gratificante e più stressante ed arido, per ridare invece spazio alla creatività e qualità della vita, in  un sistema urbano reso vivibile e fruibile da un ritrovato equilibrio tra uomo e territorio. Ciò può avvenire attraverso la trasformazione degli spazi urbani in luoghi vivi e utili per il benessere della comunità, paesaggi dunque belli e necessari ed i paesaggi commestibili ne sono un esempio. Pianificare la produzione di un sistema alimentare  sul territorio dove verrà consumato significa applicare teorie che  vengono quotidianamente proposte dai media. Perché dunque  non iniziare a farlo? E’ la produttività messa a disposizione della comunità che distingue i paesaggi urbani commestibili da altri spazi verdi. La necessità di integrare tutti i sistemi di produzione agricola in aree metropolitane non è la sfida di un lontano futuro, ma quella di oggi, soprattutto in aree particolarmente a rischio cementificazione selvaggia (anche se programmata), caratterizzate da  un massiccio abbandono delle aziende agricole e da un conseguente impoverimento del suolo agricolo e di  un sottosuolo utilizzato spesso e volentieri a discarica illegale (vedi tratti BreBeMi). Tutto ci dovrebbe indurci  a  riflettere sulla nostra scarsa qualità di  vita e spingerci a cercare  percorsi  alternativi per porre un limite al degrado ambientale e generale.

Nella cultura contadina,  sino a quanto si utilizzava l’energia umana ed animale (prima dell’avvento dell’energia fossile), era ben evidenziato il pieno rispetto della natura  con i suoi tempi ed i suoi  ritmi, mantenendo in equilibrio tutto il “vivente”  in essa racchiuso  (quello che oggi definiamo biodiversità e tentiamo di salvaguardare).  Il mutuo aiuto e lo scambio dei saperi tra generazioni era fondamentale nella vita sociale delle comunità rurali e si evidenziava in eventi cadenzati; la mietitura, la raccolta e la pigiatura dell’uva, la macellazione del maiale, ecc..; tutti erano chiamati a dare il loro contributo per la comunità.

Non ci resta allora che rimboccarci le maniche, sputarci sulle mani, e prendere il badile per creare i sentieri tra le prose, dando forma a quegli orti, dove si coltiva la voglia di costruire insieme.

A conclusione della riflessione sembrano indicate le poche righe tratte dal libro di Marc Augè Il bello della bicicletta. “L’attività di coltivazione stimola negli ortisti la coscienza di una certa socialità, la coscienza della sfida e del momento condiviso, di un qualche cosa che li distingue da tutti gli altri e che appartiene solo a loro”.

Marco Legramanti

 

Il giardino delle farfalle

Domenica 20 maggio 2012

Inserita nell’iniziativa “Il mercato del contadino” la proposta vuole stimolare bambini ed adulti a dare un contributo a  riportare sul balcone di casa, nel giardino e nell’orto le farfalle, attraverso la semina di fiori che ne incentivano la presenza.

Ore 09,30/12,00
Centro Polivalente Anziani
P.za Berlinguer
Melzo MI

 

 

Animali da cibo

Il rapporto uomini-animali.

Il rapporto di subordinazione dell’animale all’uomo si articola sostanzialmente in cinque modalità: l’alimentazione, l’intrattenimento, la compagnia, il vestiario, la vivisezione. Queste cinque forme d’uso testimoniano il dominio ormai totalitario su queste creature e la loro piena trasformazione da esseri viventi in beni di mercato.

La presente mostra indagherà il primo, e anche più numericamente consistente, settore di sfruttamento: l’allevamento. Attualmente un uomo occidentale consuma in media durante tutta la vita 1.500 animali. Ogni anno vengono macellati 48 miliardi di animali, 131 milioni animali al giorno, 5,5 milioni all’ora, 1500 al secondo.

Per gran parte della loro esistenza gli esseri umani hanno ottenuto cibo sufficiente per la propria sopravvivenza, unendo la caccia di piccoli mammiferi alla raccolta delle specie vegetali e alla carne delle carogne. Con l’avvento dell’agricoltura, avvenuto circa due milioni di anni dopo la comparsa dell’uomo, intorno al 10.000 a.C., si inaugurò un rapporto nuovo tra uomini e animali: la domesticazione. (C. Ponting, Storia verde del mondo, 1992).

Nonostante alcune fonti facciano risalire la domesticazione di specie quali cani e cavalli già al 14.000 a.C. (E. Moriconi, Le fabbriche degli animali, 2001) è la sedentarizzazione dei cacciatori-raccoglitori, seguita alla capacità di sfruttare la terra in maniera sistematica, a segnare il passaggio di diverse specie da selvatiche a affiliate all’uomo. I reperti neolitici forniscono abbondanti prove in questa direzione. Le prime forme di allevamento si registrarono nella Mezzaluna fertile – la regione del Medio Oriente compresa tra Tigri e Eufrate – come la conseguenza di tentativi di cattura e riproduzione in cattività di branchi di pecore e capre selvatiche. (M. Pavanello, Sistemi umani. Profilo di antropologia economica e di ecologia culturale, 1992).

L’allevamento brado a partire dalla preistoria è caratterizzato da spostamenti sistematici di animali e uomini che nelle regioni meridionali e orientali dell’area mediterranea assumono la forma del nomadismo (Nord Africa, Anatolia e Balcani) e in quella settentrionale la forma della transumanza. Le origini di questo fenomeno vanno probabilmente cercate nei movimenti che gli animali compivano fin dal Paleolitico alla ricerca di condizioni ambientali migliori a seconda della stagione. La regolarità del clima e l’alternanza delle stagioni in Italia, in Francia e in Spagna portano i pastori a spostare le proprie greggi in estate dalla pianura alla montagna e in inverno dalla montagna alla pianura. Le testimonianze di questa pratica secolare sono le vie della transumanza ancora ben riconoscibili. (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 1976).

Gli animali in stalla.

Il passaggio dal pascolo libero alla vita in stalla prese il via nel Settecento con la rivoluzione agricola e la diffusione della mixed farming. In questo modello di agricoltura mista le piante leguminose, da un lato rendevano naturalmente fertili i terreni e permettevano la “coltura continua”, con l’eliminazione del “riposo”. Dall’altro, essendo ottime foraggere, consentivano anche di allevare il bestiame nelle stalle. Si rompeva così la separazione millenaria tra agricoltura e allevamento. Le stalle e i progressi della scienza veterinaria comportarono un indiscusso miglioramento delle condizioni di vita del bestiame grazie alla diffusione di «un atteggiamento di cura, di protezione, di valorizzazione che di sicuro rappresenta una fase nuova nella lunga storia della domesticazione umana degli animali».  (P. Bevilacqua, La mucca è savia, 2002).

Il limite della stabulazione “naturale” venne superato sul finire dell’Ottocento: le esigenze di una sempre maggiore produzione e i passi in avanti della chimica modificarono in maniera rilevante l’alimentazione degli animali e trasformarono l’allevamento in un ramo dell’economia  tendenzialmente indipendente dall’azienda agricola.

 


L’allevamento intensivo.

I primi passi dell’allevamento intensivo vennero mossi alla fine degli anni ’40 del Novecento negli Stati Uniti (e in particolare nello stato del Kansas) dove si assistette alla costituzione dei primi Feedlots, recinti da ingrasso per il bestiame, conosciuti anche come Confined Animal Feeding Operation. Il sistema fu esportato in Europa a partire dal secondo dopoguerra, e tra il 1950 e la seconda metà degli anni ‘60, anche nel vecchio continente la zootecnia intensiva prese piede. L’impulso principale fu dato dalla graduale trasformazione delle abitudini alimentari occidentali e della crescita del reddito pro capite. Fino agli anni ’70 le migliorate condizioni economiche conferirono alla carne – soprattutto bovina e suina – un ruolo di status symbol, in virtù anche del crescente valore alimentare ad essa attribuito. In vent’anni, dal 1950 al 1970, il consumo pro capite annuo è passato da 5.3 kg a 25.2 kg. (M. Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, 2008).

 

Gli ospedali della carne.

Una seconda spinta alla produzione “di massa” di carne fu data dalla evoluzione del settore chimico e della tecnologia farmaceutica: gli antibiotici e diverse tipologie di fitofarmaci, infatti, iniziarono ad essere utilizzati nella zootecnia come stimolanti (favorendo uno sviluppo fisico del bestiame particolarmente rapido) e in risposta alle complicazioni cliniche dei luoghi di allevamento, diventati innaturali e malsani. (R. Bertuletto, Allevamenti intensivi, 1990). Le stalle e i pollai industriali attualmente non costituiscono più dei luoghi di allevamento: sono, di fatto, degli ospedali zootecnici per la produzione di latte e carne su larga scala. Gli animali non sono infatti allevati: più precisamente essi vengono intensivamente ingrassati in una condizione di patologia permanentemente controllata.

Il processo di “taylorizzazione zootecnica”, perseguendo l’ottenimento della massima quantità di prodotto al minimo costo e considerando l’animale semplicemente una «macchina trasformatrice degli alimenti in prodotti utili», ha di fatto compromesso la fondamentale relazione tra animale ed ecosistema e ha permesso un esponenziale incremento produttivo in tempi abbastanza brevi. Nonostante i livelli di produzione raggiunti, paradossalmente gli allevamenti consumano più di quanto producono. Si utilizzano 77 milioni di tonnellate di proteine di origine vegetale che potrebbero essere destinate all’alimentazione umana, mentre ne vengono prodotte, sotto forma di cibo, solo 58 milioni di tonnellate. 36 dei 40 paesi più poveri al mondo esporta verso l’Europa e gli Stati Uniti prodotti agricoli utilizzati come mangimi.

«Nessuna società del passato, per quanto povera e ossessionata dalla fame, era riuscita a immaginare e realizzare l’inferno in cui oggi sono confinati gli animali un tempo detti domestici. Lo fa la nostra: la più ricca e prospera che sia mai apparsa sulla faccia della terra, con uno spirito da società povera, tormentata dall’assillo della fame». (P. Bevilacqua, La mucca è savia, 2002).

La salute degli uomini.

L’allevamento rappresenta il principale settore dell’economia agricola e l’unica fonte di sussistenza per le fasce più povere della popolazione mondiale (pari a 987.000.000 di persone). E’ inoltre determinante per l’alimentazione e la salute dell’uomo. Fornisce, infatti, il 17% dell’energia e il 33% delle proteine assunte. Tuttavia l’accesso ai suoi prodotti non è distribuito equamente: in media un indiano arriva a consumare 5 kg di carne in un anno, mentre uno statunitense ne consuma 123 kg.

Sebbene un moderato aumento del consumo di latte, carne e uova abbia apportato benefici alla salute, com’è accaduto in alcuni paesi come il Kenya, un numero sempre maggiore di disturbi associati al consumo di carne e suoi derivati colpisce fasce sempre più larghe della popolazione mondiale. Fra le patologie più diffuse vi sono malattie cardiovascolari, diabete ed alcuni tipi di cancro. L’insorgere di disturbi generati dal consumo di questi prodotti è dovuto alla presenza di residui chimici (antibiotici, pesticidi, diossina) e di agenti batterici (l’Escherichia coli, la salmonella, il prione della BSE, nota come “malattia della mucca pazza”). I prodotti derivati dagli allevamenti intensivi risultano maggiormente suscettibili ad agenti patogeni trasmissibili all’uomo. Circa il 60% degli agenti patogeni che contagiano l’uomo e il 75% dei disturbi di recente riscontro (influenza aviaria, virus Nipah, Creutzfeldt-Jacob) sono di origine animale. (FAO, Livestock’s long shadow, 2006).

L’impatto sull’ambiente.

La zootecnia, su scala mondiale, contribuisce per l’1,4% al PIL. Ma il suo peso sull’ambiente e sulla salute umana assume ben altre dimensioni

Riscaldamento globale

Gli allevamenti intensivi sono responsabili del 18% delle emissioni di gas serra misurate in diossido di carbonio (CO2), pari a 7.1 miliardi di tonnellate (più di quanto ne producano i trasporti). Vari gas serra (metano protossido d’azoto, anidride carbonica) vengono prodotti dalla fermentazione dei ruminanti e dalle deiezioni, dalla deforestazione, dalla conversione delle foreste in pascoli o terreni utilizzati a scopo agricolo. Enormi quantità di petrolio sono impiegate per la produzione di granaglie (trattori, produzione di fertilizzanti, pompaggio dell’acqua, trasporti) e per la lavorazione e la distribuzione dei prodotti finiti. Gli allevamenti intensivi generano fino al 68% dell’ammoniaca (NH3, gas inquinante che provoca le piogge acide) prodotta su scala globale (pari a 30 milioni di tonnellate annue).

– Consumo di suolo

L’allevamento è il più grande consumatore di suolo della Terra, includendo i terreni destinati al pascolo e alle coltivazioni di foraggi e mangimi. Le aree coinvolte rappresentano il 70% dei territori agricoli e il 30% della superficie non gelata del pianeta.

Acqua

Gli allevamenti utilizzano circa l’8% dell’acqua totale usata dall’uomo e la produzione dei mangimi ne disperde fino al 15%. La maggior parte dell’acqua assunta dagli animali viene restituita all’ambiente sotto forma di deiezioni e rifiuti. Le deiezioni contengono elementi trofici (azoto, fosforo, potassio), residui di antibiotici, metalli pesanti e agenti patogeni. Questi elementi, accumulati, inquinano gravemente le falde idriche. Negli Stati Uniti il settore zootecnico è responsabile del 55% dei fenomeni di erosione del suolo e dell’immissione del 65% di sostanze trofiche immesse nei corsi d’acqua dolce. A questi si aggiungono il 37% dei pesticidi e il 50% degli antibiotici usati negli USA.

– Biodiversità

Gli allevamenti contribuiscono alla perdita della biodiversità in ogni sua dimensione: diversità genetica, diversità delle specie e diversità dagli ecosistemi. Il settore zootecnico è causa di distruzione degli habitat naturali, cambiamento climatico, invasioni parassitarie, sovra sfruttamento e inquinamento. La zootecnia oggi impiega il 20% della biomassa animale e occupa il 30% della superficie terrestre un tempo costituita da fauna selvatica. La minaccia dell’inquinamento riguarda ovviamente anche gli ecosistemi marini e la capacità di riproduzione delle specie ittiche.

Si stima che delle 825 ecoregioni terrestri 306 sono minacciate dagli allevamenti, mentre 23 dei 35 “punti caldi” della biodiversità sono gravemente minacciati dalla produzione zootecnica.

 

 

Come cambiare? Le possibili alternative.

– Allevamenti biologici

Le norme IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements), che regolano la zootecnia biologica, ripropongono un modello di azienda in cui agricoltura e allevamento convivono e in cui l’animale ha il compito di chiudere il ciclo ecologico. Le linee guida degli allevamenti biologici tengono conto del benessere e delle necessità degli animali. Pertanto sono ammesse solo razze locali; l’alloggiamento deve consentire movimento sufficiente, libero accesso ad acqua e cibo, aria fresca e luce solare, protezione dalle intemperie ed ampie aree di riposo coperte da materiale naturale; la dieta deve essere bilanciata, di buona qualità e non deve prevedere promotori della crescita, appetibilizzanti sintetici, conservanti, coloranti, urea, sottoprodotti animali; in caso di malattia sono ammesse la fitoterapia, l’omeopatia o altre medicine dolci.

Il biologico non risolve del tutto il problema della produzione di gas serra come il metano e l’ossido di azoto derivanti dalle fermentazioni gastroenteriche e dei liquami. La compresenza del settore agricolo e di quello zootecnico permette comunque il contenimento delle emissioni grazie al riciclo delle deiezioni.

– Vegetarianismo e veganesimo etico

Sono due alternative all’alimentazione carnivora, sono stili di vita individuali e «forme di boicottaggio permanente». (P. Singer, Liberazione animale, 2010)

Il vegetarianismo prevede il consumo di proteine vegetali in sostituzione di quelle animali. Fondamenti etici di questa scelta sono l’antispecismo e la non violenza: gli animali sono, similmente all’uomo, esseri senzienti, capaci cioè di provare emozioni quali gioia, dolore. Agli animali dovrebbero essere riconosciuti i diritti alla vita, alla libertà e a non essere torturati.

Il veganesimo etico esclude lo sfruttamento da parte dell’uomo di tutte le specie animali. Garantire uno stile di vita dignitoso agli animali, limitando la loro sofferenza negli allevamenti, rinunciando ad una produzione industriale, non giustifica infatti il loro utilizzo a fini alimentari.

– Consumo critico

Il consumatore critico o consapevole è colui che sceglie di acquistare un prodotto, non solo tenendo conto del prezzo e della qualità, ma anche e soprattutto considerando l’impatto che esso produce sul piano ambientale e sociale. Fondamentale in questo senso diventa la relazione diretta tra produttore e consumatore. Negli ultimi anni si sono affermate alcune forme di consumo consapevole come i gruppi di acquisto solidale (GAS) e il Km0 che promuovono la vendita di carni a filiera corta e prodotte nel rispetto delle condizioni di benessere degli animali e dei lavoratori. (L. Valera, GAS gruppi di acquisto solidali, 2005). A sostegno dei piccoli allevatori e per salvaguardare la loro eccellenza gastronomica dal 1999 il progetto Presidi di Slow Food tenta di recuperare non solo prodotti finali alimentari rari e di qualità, ma anche materie prime, tecniche di lavorazione e conoscenze tradizionali. (C. Petrini, Slow Food. Le ragioni del gusto, 2003)

 

 

Aforismi:

Amici miei, evitate di corrompere il vostro corpo con cibi impuri; ci sono i campi di frumento, mele così abbondanti da piegare i rami degli alberi, uva che riempie le vigne, erbe gustose e verdure da cuocere; ci sono il latte e il miele odoroso di timo; la terra offre una gran quantità di ricchezze, di alimenti puri, che non provocano spargimento di sangue né morte. Solo gli animali soddisfano la loro fame con la carne, e neppure tutti: infatti cavalli, bovini e ovini si nutrono di erba.

Pitagora

La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali.

Gandhi

Verrà il tempo in cui l’uomo non dovrà più uccidere per mangiare, ed anche l’uccisione di un solo animale sarà considerato un grave delitto…

Leonardo Da Vinci

L’uomo è un animale addomesticato che per secoli ha comandato sugli altri animali con la frode, la violenza e la crudeltà.

C. Chaplin

Due cose mi sorprendono: l’intelligenza delle bestie e la bestialità degli uomini.

T. Bernard

Maiali costretti in stambugi senza luce. Galline chiuse notte e giorno nell’incubatrice. Oche inchiodate con le zampe al pavimento. Vitelli che passano dalla prigione al macello senza aver mai visto un prato. Gli ultimi animali, superstiti di una moltitudine che riempiva festosamente la terra, sono ridotti a un’eterna notte.

F. Burdin

Per prima cosa fu necessario civilizzare l’uomo in rapporto all’uomo. Ora è necessario civilizzare l’uomo in rapporto alla natura e agli animali.

V. Hugo

Mi addolora che non si arriverà mai a un’insurrezione degli animali contro di noi, degli animali pazienti, delle vacche, delle pecore, di tutto il bestiame che è nelle nostre mani e non ci può sfuggire.

E. Canetti

La bontà umana, in tutta la sua purezza e libertà, può venir fuori solo quando è rivolta verso chi non ha nessun potere. La vera prova morale dell’umanità, quella fondamentale, è rappresentata dall’atteggiamento verso chi è sottoposto al suo dominio: gli animali. E sul rispetto nei confronti degli animali, l’umanità ha combinato una catastrofe, un disastro così grave che tutti gli altri ne scaturiscono.

M. Kundera

 

Bibliografia di riferimento:

Bevilacqua P., La mucca è savia, Donzelli, Roma 2002
Braudel F., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1976
Cicia G., De Stefano F., Prospettive dell’agricoltura biologica in Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2007
Coetzee J.M., La vita degli animali, Adelphi, Milano 2000
FAO, Livestock’s long shadow, FAO, Roma 2006
Farracchi A., I polli preferiscono le gabbie, Amrita, Giaveno 2003
FEPMA, Documentación, Análisis y Diagnóstico del Estado de la Red Nacional de Vìas Pecunarias, 1996.
Foer J.S., Se niente importa. Perché mangiamo animali?, Guanda, Varese 2010
Goracci J., Less eat, better meat, intervento tenuto a Terra Madre, Torino 2010
Mason J., Un mondo sbagliato, Sonda, Monferrato 2007
McNeill J.R., Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi, Torino 2002
Moriconi E., Le fabbriche degli animali,Cosmopolis, Torino 2001
Patel R., I padroni del cibo, Feltrinelli, Milano 2008
Patel R., Il valore delle cose, Feltrinelli, Milano 2010
Patterson C., Un’eterna Treblinka, Ed. Riuniti, Roma 2003
Pavanello M., Sistemi umani. Profilo di antropologia economica e di ecologia culturale, CISU Roma 1992
Pearce F., Confessioni di un eco-peccatore, Edizioni Ambiente, Milano 2009
Petrini C., Slow Food. Le ragioni del gusto, Laterza, Bari-Roma 2003
Pollan M., Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano 2008
Ponting C., Storia verde del mondo, SEI, Torino 1992
Regan T., Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, Sonda, Monferrato 2005
Rifkin J., Ecocidio, Mondadori, Milano 2001
Singer P., Liberazione animale, Il Saggiatore, Milano 2010
Striffler S., La fabbrica della carne in I frutti di Demetra 2006, n.12
Striffler S., The dangerous transformation of America’s favourite food, Yale University Press, 2007
Tolstoj L., Contro la caccia e il mangiar carne, a cura di G. Ditadi, Isonomia, Este 1994
Valera L., GAS gruppi di acquisto solidali, Terre di Mezzo, Milano 2005

Organismi internazionali

Environment Protection Agency (EPA)
Food and Agriculture Organization (FAO)
Human Rights Watch (HRW)
Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)
International Federation of Organic Agriculture Movements (IFOAM)
Office International des Epizooties(OIE)
Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)
World Bank
World Health Organization (WHO)

Fonte:

© 2012 AMIGI, Amici degli incontri del giovedì
http://www.amigi.org

Parliamo di benessere animale

Biodiversità significa anche recuperare metodologie di allevamento abbandonate a causa delle esigenze dell’allevamento intensivo. Utilizzare sistemi improntati sul  rispetto del animale (come il metodo di allevamento Mediterraneo) è possibile e sicuramente molto più etico e salubre non solo nei confronti degli stessi animali ma anche del consumatore che è sempre più attento a ciò che raggiunge la sua tavola.
BENESSERE ANIMALE
Il significato del termine benessere ha molteplici accezioni, una definizione di questo concetto ci viene fornito da Hughes (1976) come “quello stato di equilibrio mentale e fisico che consente all’animale di essere in armonia con l’ambiente che lo circonda”. Una definizione più recente è data da Broom (1990) secondo la quale il benessere è “lo stato dell’individuo in rapporto ai suoi tentativi di adattarsi al suo ambiente”, quindi il concetto di benessere deve essere intenso in senso dinamico.
Da queste definizioni si deducono le condizioni necessarie a mantenere un buono stato di benessere di un animale:
–         alimentazione adeguata a seconda dei fabbisogni dell’animale
–         l’animale non deve subire dolori o fastidi
–         buono stato di salute
–         non deve subire stress
–         libero di esprimere la maggior parte dei suoi modelli comportamentali
In condizioni naturali l’animale vive in armonia con il suo ambiente nel quale ogni specie compie le sue funzioni biologiche applicando modelli comportamentali di volta in volta diversi in rapporto alle esigenze del momento.
Nell’allevamento, specie in quello intensivo, a volte si viene meno a questi accorgimenti che sono importanti per lo stato psico-fisico dell’animale, alcuni esempi:
–         forte spinta sulla selezione,
–         sfruttamento eccessivo dell’animale per ottenere maggiori quantitativi delle produzione (spesso trascurando l    ‘aspetto qualitativo delle produzioni di origine animale),
–         gestione dell’allevamento errata ( questo può comportare patologie, piuttosto che stress)
–         mancanza di stimoli: un pollo chiuso in una gabbia beve circa il doppio rispetto a un pollo al pascolo poiché l’unico sfogo che ha è  giocare con i beverini, un suino senza del materiale edibile sul quale grufolare, morsica gli altri compagni perché si annoia visto che il grufolamento è un comportamento importante nella specie suina…
In conclusione il welfare (benessere) è una caratteristica dell’animale e non qualcosa che gli viene fornito dall’esterno, si può misurare in modo scientifico tramite la conoscenza della biologia della specie e dei metodi usati dagli animali per tentare di adattarsi all’ambiente.
Un grazie per il supporto a Chiara Iametti prossima laureanda in Scienze del benessere animale

Definiamo l’agricoltura urbana

Sono state elaborate numerose difinizioni dell’agricoltura urbana. Alcune di esse si concentrano sulla particolare localizzazione delle colture all’interno del territorio urbanizzato, altre si focalizzano sugli aspetti economici o sulla sicurezza  alimentare di un uso urbano diretto del cibo prodotto localmente. Tuttavia, l’aspetto che distingue l’aagricoltura urbana da quella rurale sta nel fatto che l’agricoltura urbana è parte integrante del processo ecologico dell’ecosistema urbano. Una difinizione proposta è quindi la seguente (Mougeot 2000).
” L’agricoltura urbana è un’industria localizzata entro (intraurbana) o al bordo (periurbana) di una città che coltiva o alleva o lavora e distribuisce una varietà di prodotti alimentari e non, (ri)utilizzando gran quantità di risorse umane e materiali, prodotti e servizi all’interno e intorno a quell’area e in cambio fornendo gran quantità di risorse umane e materiali, prodotti e servizi a quell’area”

Fonte: Sistemi alimentari e pianificazione urbanistica. Uno studio per l’agricoltura urbana a Bologna – Tesi di Laurea in Tecnica Urbanistica. Relatore Prof. Giovanni Virgilio

Biodiversità

Definire la biodiversità in modo semplice e comprensivo dei suoi molteplici aspetti non è facile e una definizione rigorosa generalmente accettata finora manca. L’ecologo R.H. Whittaker (1972) si limita ad affermare che questo concetto si applica alla ricchezza in specie considerata a vari livelli, come la comunità, le aree studiate dal biogeografo, l’intera biosfera.
Con questo termine gli ecologi fanno riferimento alla molteplicità dei vari esseri attualmente viventi sul nostro pianeta, quale risultato dei complessi processi evolutivi della vita in più di tre miliardi di anni. Secondo Margalef (1968) l’ecosistema può esser considerato un messaggio trasmesso attraverso un certo canale con un codice adatto (nel senso della teoria dell’informazione) e la diversità risulta essere la misura del contenuto d’informazione di questo messaggio. Si tratta di una misura del numero degli elementi, collegata all’abbondanza o rarità di questi, e su tale principio sono stati proposti alcuni indici di diversità biologica.
Tuttavia la ricerca su questo argomento si è sviluppata soprattutto sulle relazioni tra il grado di maturità oppure di stabilità di ecosistemi e la diversità stessa, ammettendo che quest’ultima dipenda dalle relazioni tra i vari componenti del sistema, che tendono ad avere il carattere di vincolo o a costituire anelli di feedback.
In questo senso si tende a considerare la diversità come una misura della complessità del sistema, delle relazioni esistenti tra i vari componenti di un assortimento biologico e quindi della complessità di quest’ultimo.
Si tratta tuttavia di un concetto ancora insufficientemente chiarito, e che pertanto non può venire applicato acriticamente.
Bisogna tener presente il fatto che gli aspetti funzionali di un ecosistema possono venire espressi in maniera precisa, ad es. come scambi d’energia, mentre per la valutazione dei caratteri strutturali manca un sistema di riferimento chiaro ed univoco. Le misure di diversità cercano di riempire questa lacuna, almeno in parte.
Una moderna interpretazione, utile da un punto di vista operativo, è data da E.O. Wilson (1992), per il quale la biodiversità rappresenta “la varietà degli ecosistemi, che comprendono sia le comunità degli organismi viventi all’interno dei loro particolari habitat, sia le condizioni fisiche sotto cui essi vivono”.
L’interesse per la biodiversità e per la sua tutela è così aumentato nel tempo da diventare una delle tre emergenze, a livello globale, individuate dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo sviluppo di Rio  de Janeiro del 1992.
Riteniamo che la  consapevolezza del valore intrinseco della diversità biologica e dei suoi componenti ecologici possa derivare da una sempre maggiore comprensione del “sistema ambiente” nella sua interezza, vale a dire dalla conoscenza della natura derivata da un approccio olistico in grado di coglierne sia gli aspetti strutturali, sia quelli funzionali, da cui far derivare le attività di conservazione ed uso sostenibile del patrimonio naturale, tenendo conto sia dello stato degli ecosistemi e delle loro variazioni, sia  delle politiche, dei piani e dei programmi settoriali e intersettoriali che governano la gestione del territorio.
Fonte: ISPRA